CHI HA PAURA DELLE EMOJI NERE?

ritratto per emoji nere

Il dibattito sulle diverse facce della questione etnica vive una stagione d’oro grazie ai social, che portano i frutti della globalizzazione sulle nostre tavole virtuali.

Troviamo così anche il nonno di Udine che sente parlare di blackface e probabilmente non ha uno straccio di mezzo intellettuale per elaborare un’opinione e dire la sua. Così magari ripete quella degli altri.

(Nota bene: non è obbligatorio avere un’opinione su tutto, e ci sono cose su cui non esistono opinioni.)

Oggi parliamo di emoji nere e identificazione nel discorso pubblico, e con identificazione vogliamo parlare proprio del colore della nostra faccia, quella che vediamo allo specchio tutte le mattine. 

EMOJI: COME NE PARLA LA STAMPA

Ora che i social non sono più relegati a passatempo dei giovani, ma sono diventati un vero e proprio mezzo di comunicazione, vendita, condivisione e piattaforma di influenza politica, guadagnano titoli anche nelle testate giornalistiche che si dicono serie e importanti.

Troviamo quindi Repubblica che titola “Altro che gesti, gli emoticon raccontano come siamo”. 
Il Corriere che mette in guardia i suoi lettori paganti con un “Se usi queste emoji sei vecchio” o La Stampa che celebra “L’emoji più italiana di tutte arriva finalmente su iPhone

Bene.

Diamo quindi per scontato che tutti sappiamo di cosa stiamo parlando, grazie al sistematico ricorso a boiate riempitive da parte dei professionisti dell’informazione

ITALIA vs STATI UNITI

Lo smile, la prima emoticon, che da decenni mima un sorriso usando i due punti e una parentesi 🙂 è preistoria. Le emoji sono oggi un mondo di immagini usate per arricchire i testi, e la loro comparsa nelle tastiere è il segno che il consorzio Unicode è arrivato a far lavorare i suoi serissimi e tecnicissimi addetti per permetterci di arricchire i nostri messaggi e commenti con i cuoricini, i pagliacci, le olive denocciolate e il saldatore gender neutral.

La caccia all’inclusione ci permette ora di poter esprimere uno stato d’animo usando faccine non solo giallo-Simpson, ma in 5 ulteriori diverse tonalità di pelle, dal rosa pallido al marrone scuro.

In Italia si è creato un certo dibattito, che però non riesce mai ad andare al punto. Ecco nell’ordine GQ Italia con “Perché anche i bianchi preferiscono le emoji black“, Fanpage che titola “Le emoji bianche sono razziste” e Il Foglio che rilancia: “I bianchi che mandano su WhatsApp messaggi con faccini neri sono razzisti?“.

E proprio perché ormai abbiamo aperto sto vaso di pandora delle non-notizie o quasi-notizie, mettiamo nel calderone dell’import mass mediatico anche La Stampa che parla delle Russia, con Putin che minaccia di chiudere il Facebook per le emoji gay e lo strafalcione infondato del segno “OK” come gesto di esclusivo appannaggio dei suprematisti bianchi.

Ma non divaghiamo!

Perché diciamo che in Italia la questione delle emoji nere non va mai al punto? Perché le manca il vigore necessario per alimentare un dibattito costruttivo, e le ragioni sono varie. Gli articoli citati sopra infatti non parlano mai dell’Italia, ma sempre e solo degli Stati Uniti. Quel paese d’oltre oceano dove è nato il movimento Black Lives Matter. Quello dove la schiavitù dei neri è un’eredità vecchia di 500 anni, e in cui oggi c’è il 13,4% di neri nella popolazione.

Qui da noi la situazione è molto diversa.

emoji come propaganda omosessuale in russia

Secondo i dati del 2016, in Italia abitavano meno di 370.000 neri (contando tutte le nazionalità africane subsahariane), su una popolazione totale di oltre 60 milioni. 5 anni fa i neri erano lo 0,6%. Per dire, è statisticamente più facile incontrare un abitante di Monte Urano che uno qualsiasi fra tutti gli immigrati di Namibia, Zimbabwe, Mozambico, Ruanda, Ciad, Uganda, Burundi, Kenia e Sudan messi insieme. Se poi abitiamo a Monte Urano…

Le differenze fra noi e gli Usa non stanno solo nella storia secolare o decennale, o nella percentuale di etnie sul totale della popolazione. Risiedono anche sulla struttura della presenza e nelle intenzioni della presenza nel territorio.

I neri d’America hanno i bisnonni dei bisnonni nati e cresciuti a Philadelphia, Dallas, Detroit, New York, San Francisco. Loro negli Stati Uniti ci sono nati, hanno una storia, le foto di famiglia, la lingua, il negozio di fiducia, gli avi nei cimiteri, la scuola dove si trova bene il figlio dei loro amici, ci hanno fatto i mutui, i matrimoni e le lauree.

In Italia questo non è la normalità: qui c’è una immigrazione storicamente di lavoratori che magari ha già in tasca il biglietto di ritorno (due terzi degli immigrati totali sono arrivati per motivi di lavoro), distribuiti lungo una piramide demografica propria della forza lavoro. Oltre il 30% ha fra i 30 e i 44 anni. Oltre il 30% risiede fra Veneto e Lombardia, i due motori d’Italia. 

La normalità statistica è quella dell’adulto che lavora e che non indirizza le proprie energie per discutere di difesa della propria identità nelle emoji nere di WhatsApp, mettendo la questione al centro del dibattito quotidiano. O almeno ora non lo fa con successo.e poi

IL COLORE DEL DISCORSO PUBBLICO ITALIANO È TOTAL WHITE

Parliamo di discorso pubblico riferendoci “solo” all’intero universo social e mass mediatico che dice tutto e il contrario di tutto.

Ha senso quindi parlare di colore in questo specifico universo, al quale potenzialmente tutti hanno accesso? Sì, perché nonostante non ci siano mai stati un “divieto di Facebook” o un “divieto di Mtv” per i neri, fra le maglie ci sono secoli di dinamiche razziali che faticano a fare il salto conclusivo nell’oblio.

Queste dinamiche danno forma a narrazioni dominanti che influenzano ogni livello della società, dalla sfera privata alle politiche interne ed estere, dalla scelta del percorso di studio della ragazza di seconda generazione al dibattito parlamentare fra ius soli e ius sanguinis.

La mancanza della voice dei neri deriva dalle molteplici ragioni menzionate sopra: esigua percentuale di abitanti neri in Italia, scopi lavorativi per la migrazione, generale mancanza di radicamento in Italia. Siamo spesso alla prima o più raramente seconda generazione: significa che, se sei nero e non hai la parabola o la fibra, sei una persona molto isolata.

L’immagine qui sotto è tratta dal bell’archivio di pubblico dominio della Biblioteca del Congresso: è il ritratto di una nera scattato ad Harlem nel 1944. 

I giornali nazionali che discutono della appropriazione culturale o del razzismo sotteso all’uso delle emoji nere da parte di un italiano non lo stanno certo facendo in nome di uno dei 450 Ruandesi che vivono in Italia.

Stanno solo scopiazzando degli articoli d’oltreoceano, o perché non hanno idee, o perché la paga per scrivere un pezzo originale è troppo bassa, o perché si sentono trendy ad omaggiare i giornali americani.

Tuttavia, cercando davvero le parole originali dei testi statunitensi, la questione diventa di una profondità vertiginosa e il dibattito delle emoji bianche e nere si mostra come la punta di un iceberg di possibilità di strumentalizzazione, fraintendimento e sabotaggio etnico.

QUELLO CHE ARRIVA DA OLTREOCEANO È MOLTO PIÙ RICCO: L’ERA DELL’INCLUSIVITÀ FACILE FACILE (CHE NON È MAI FACILE)

Andiamo a sederci da Seylou, il nostro bistrot di Washington preferito, e ordiniamo una colazione dei campioni che ci terrà occupati per un’ora, così abbiamo tempo di leggere un po’ di notizie locali, un po’ da telefono e un po’ sfogliando i giornali.
The Atlantic riporta un dialogo fra la donna d’affari nera Aminatou Sow, e Ann Friedman, autrice ed editrice di tematiche sociali, bianca. Le due parlano dell’arrivo delle emoji in diversi colori.

Sow: Personalmente uso di default le emoji più scure, ora. Vivo in un mondo in cui c’è sempre solo una opzione di default.

Friedman: Beh, io vivo nello stesso mondo, dove l’opzione di default è sempre una.

Sow: Sì, lo so, ma tu eri il dafault!

Più avanti: “Prendiamo questi simboli, e li avvolgiamo nelle nostre idee su di essi, che sono idee profondamente razzializzate. […] Si tratta solo di una sequenza di 0 e 1, ma noi prendiamo questi 0 e questi 1 e li impacchettiamo coi i loro significati. Questa cosa ti sbatte proprio in faccia che la tecnologia e la programmazione non sono value-free, distaccate da un sistema di valori”.

Ancora: “Diventa un circolo che alimenta se stesso. Quando i bianchi optano per le emoji colorate al posto delle emoji gialle di default, quei simboli diventano ancora più strettamente collegati con l’essere bianchi – e con la nozione che il bianco è l’unico colore senza razza”.

NPR ne parla così:

“Se tua figlia è come me, lei può pensare che una emoji valga più di mille parole. Quando un amico mi invita a cena, mi piace rispondere col pollice in su. Quale altro modo migliore per dire: “Bella idea, mi fa piacere (ma tranquillo che non è la mia ossessione mangiare da te)”?

[…]  Se tua figlia pensa che la pelle nera sia una parte inerente nel suo messaggio, allora deve pensare con più profondità a quale sia l’elemento che la pelle nera aggiunge al suo messaggio. Pensa che il pugno alzato sembri più rivoluzionario se è nero? Che le mani che applaudono siano più ritmiche? Le sue lodi più drammatiche? Le sue unghie dipinte appaiano più sexy?

[…] Usando la pelle nera quando è divertente, sicuro e conveniente è un modo per banalizzare inavvertitamente le esperienze delle persone nere reali.

[…] Prima, quando i bianchi mandavano un high five in un testo, non era una cosa con connotazioni razziali. Per le persone di colore lo era. Ogni volta che noi [neri] abbiamo mandato un high five giallo, ci veniva ricordato che le mani marroni o nere non erano un’opzione”.

Gli esempi sono davvero tanti, quindi questa lunga colazione da Seylou ci riempirà la pancia e la testa. 

COME FARNE TESORO 

L’articolo può concludersi qui, e ognuno ne trarrà le sue conclusioni. A chi invece ha tempo per sentire la nostra campana, ecco il resto.

Si tratta di esperienze e punti di vista maturati in una realtà che ha pochissimo a che fare con la nostra. Detto questo, resta il principio che se una cosa tocca poche persone non è meno valida di una cosa che ne tocca tante. Se negli Usa il dibattito esiste perché la popolazione ha interazioni quotidiane importanti in cui l’etnia gioca un ruolo, non significa che qui da noi, in una realtà diversa, non possa entrare un frutto positivo maturato al sole delle lotte statunitensi.

Avere la possibilità di udire una voice che da noi è inudibile è una grande risorsa.

Avere spunti semplici e profondi sul significato dell’identificazione ci arricchisce. Iniziare a concepire che esista la questione della possibilità di identificazione è un altra freccia al nostro arco intellettuale. Magari sarà una freccia che resterà sempre nella nostra faretra, ma la faretra dell’intelletto non pesa, e una freccia in più è meglio di una freccia in meno.

Il grosso dell’immigrazione italiana dei decenni passati è stata “modello Erasmus”: chi viene qui deve fare una cosa (guadagnare soldi e poi tornare a casa) e non vuole necessariamente completare anche le missioni collaterali dell’integrazione, come sforzarsi di imparare la ricetta dell’amatriciana, imparare le sigle dei cartoni animati, sapere chi ha vinto Sanremo negli ultimi 10 anni, entrare nel comitato di quartiere “No alla nuova tangenziale” etc.

Ma questo è stato statisticamente vero fino ad ora.

Il futuro sta nascendo e dei nuovi bambini saranno italiani o diventeranno italiani, e una società che vuole vivere bene deve fare tesoro di tutto quello che può imparare dal passato, dal presente, dal meridiano sull’altra sponda dell’oceano o dal parallelo all’altro capo dell’Africa, per usarlo al meglio.

Non vedere un nesso fra la nostra situazione qui e la situazione statunitense è miope.

Vedere il nesso e non dargli importanza è stupido. È come se all’aumento del prezzo della benzina rispondessimo “Ma tanto io c’ho il diesel”.

E infine, pensare che le dinamiche problematiche siano relegate nella questione del colore della pelle è proprio da bocciatura.

Abbiamo la possibilità di attingere ad una montagna di risorse messe a disposizione da chi le ha fabbricate sulla propria pelle, ma vanno adattate alla nostra attualità.

Come farne tesoro? 

Approfondire il discorso nel proprio intimo, porsi a sorpresa la domanda: “mi comporto così perché ho di fronte una persona nera?” è una buona palestra.

Prima abbiamo parlato della reale presenza di neri subsahariani in Italia, nel 2016, e la percentuale è appena allo 0,6%. Per questo è molto difficile avere interazioni significative con una persona nera. Con interazioni significative non si parla del nero seduto vicino a noi in tram: suonare l’avviso di fermata per lui non è una interazione.

Le interazioni che ci mettono in gioco, e qui si parrà nostra nobilitate, sono molto più rare dello 0,6%. Un’interazione ci segna quando abbiamo un’esperienza significativa in cui dobbiamo davvero avere a che fare con una persona.

La direttrice nera della scuola che ci telefona perché nostro figlio picchia i compagni.

L’head hunter nero delle risorse umane che ci fa un colloquio di lavoro.

La stagista nera che arriva in ritardo tutte le mattine.

La famiglia nera nostra dirimpettaia alla quale chiediamo di prendersi cura del nostro gatto e delle nostre piante quando andiamo in ferie.

Il chitarrista nero quindicenne che ha risposto all’annuncio per la nostra band ai tempi del liceo.

La dentista nera alla quale chiediamo di non farci la fattura.

Insomma, parliamo di tutte le persone nere che hanno un ruolo importante nelle nostre vite, o perché sono in una posizione cruciale per noi o perché abbiamo con loro un rapporto quotidiano. E se negli States queste interazioni sono il pane quotidiano, dal bambino dell’asilo nido fino agli impiegati della Casa Bianca durante la Presidenza Obama, per noi oggi è molto diverso.

Sarà tuttavia sempre più frequente e sarà sempre più opportuno evitare comportamenti che generano sconforto gratuito a noi e ai nostri interlocutori.

Non tutti hanno lo stesso ruolo e lo stesso accesso ai megafoni dell’opinione pubblica, dell’influenza, dell’insegnamento o della propaganda. Verificare le informazioni delle voice che ce la raccontano facile è obbligatorio.

Studiare e informarsi rende liberi, rende poco manipolabili, allarga gli orizzonti e aumenta le possibilità di fare e scelte giuste in ogni ambito. Imparare il più possibile e coltivare la creatività ci rende motori dell’evoluzione, della creazione di nuove possibilità. In questo senso sono lodevoli le iniziative e le scelte volte ad una inclusione intelligente e mai banale, che conosce i suoi polli e ci infila il messaggio giusto. Il messaggio giusto, se tutto va bene, sarà sempre meno zuccherato e sempre più radicale e concreto.

Se il Principe di Bel Air degli anni ‘90 non poteva che essere un rapper di una periferia nera, nel 2007 era il geniale virologo amante dei cani che ha salvato il mondo da una pandemia che Covid levate proprio.

Per noi, il ruolo che può avere la rappresentazione di una persona nera di successo, non stereotipata, sembra poca cosa, così come il ritrovare le emoji di tutti i colori su WhatsApp. Proviamo però ad immaginare di vivere in una realtà al contrario, in cui tutti i politici e gli showman e i vicini di casa sono neri, e nel telefono abbiamo solo emoji nere.

Senza pensare di aver fatto Bingo, sarebbe comunque una bella sorpresa trovare il protagonista del colossal hollywoodiano e l’emoji con il nostro colore.

PER FINIRE: LA NOZIONE RADICALE

In un articolo precedente, l’invito alla visione di Io Danzerò – storia romanzata di Loie Fuller, abbiamo parlato di come il femminismo sia stato brillantemente descritto come “La nozione radicale che le donne sono persone”.

Il femminismo è un movimento di emancipazione travolgente che forgia e affila strumenti da centocinquant’anni, e forse non è un caso che la nozione radicale sia una bandiera di uguaglianza talmente raffinata che può parlare in ogni lotta. Essere persone non significa essere migliori. O avere attributi di varia eccellenza. O avere bisogni o diritti gonfiati.

Significa al contrario avere anche il diritto di fare schifo senza che questo vada letto in chiave sessista, razzista, abilista, di genere, di occupazione, di credo religioso o ateismo, di età, di salute, di orientamento sessuale, di affiliazione politica, di altezza, di peso. 

people are people

Questa nozione radicale riconosce che non tutti siamo premi Nobel che vivono in accademia e lavorano solo per salvare il mondo, e non per questo siamo “meno degni di essere considerati persone”.

E se i social ci mettono una faccina col nostro colore di pelle e capelli possiamo essere contenti di giocarci, delusi dai mezzucci attraverso i quali cercano di svendere l’integrazione, arrabbiati se chi le usa lo fa per deriderci, fieri se diventano di moda o gelosi e contrari al loro uso improprio, sia che noi siamo premi Nobel o no. 

DA DOVE È NATO QUESTO ARTICOLO

“L’identificazione è importante nel discorso pubblico, per esempio sono stata contentissima quando hanno creato gli emoji neri, ma molti non (vogliono) capiscono l’importanza della rappresentazione corretta. Lo vedo pure coi bimbi, poracci.”

L’articolo di oggi nasce da questo messaggio: l’autrice è una nostra amica di origine somala che commentava il nostro pezzo sul marketing della bellezza, articolo che nel testo toccava anche il tema dell’inclusione delle minoranze nelle pubblicità.

Per la delicatezza di questo tema e per la varietà di spunti anche personali che coinvolge, per la prima volta scrivo in prima persona. L’ultima frase del messaggio ha risvegliato un mio ricordo importante. Ho vissuto per sei mesi con una ragazza tedesca, Zoe, che, avendo il padre in smart working da decenni, ha girato il mondo durante la sua infanzia e adolescenza. In particolare, l’infanzia si è svolta in una nazione a maggioranza nera, così lei ha giocato sempre e solo con bambole nere e ha avuto solo amichette nere.

In adolescenza la famiglia si è spostata negli Usa per poi tornare in Europa, dove Zoe per la prima volta ha visto una bambola bianca, pensando qualcosa come: “Oh mein gott, ahaha che ridere una bambola bianca, va’ che roba, forte!”.

Lei ha sempre dato per scontato che le bambole fossero nere, punto. Noi donne nate negli anni ‘70 e ‘80 abbiamo sempre pensato l’esatto contrario. La banalità di questa sorpresa è stata una delle cose che mi ha fatta riflettere sull’identificazione o mancata identificazione che si può costruire o non costruire in diverse epoche della vita. 

bambola nera

Discutendo di questione etnica, anni dopo, con il mio ragazzo dai tratti decisamente mediorientali, l’abbiamo buttata in ridere e lui, dopo una battuta politicamente scorretta, mi ha detto: “Scherzo, scherzo, non sono nemmeno bianco!”. In quel momento ho realizzato che no, non sembrava un bianco, ma che non mi ero mai posta la questione.

Un paio di settimane più tardi riferivo questo scambio alla mia amica turca Ayça, che se n’è uscita con un: “Beh, nemmeno io sono bianca”. La sorpresa davanti all’ovvio è stata così grossa da farmi pensare che o non ho gli occhi o l’assegnazione delle categorie etniche ha qualcosa che non è legato strettamente alla vista e al RAL della nostra pelle, ma ha qualcosa che va oltre.

La stessa cecità di fronte all’etnia mi capita con altre due persone amiche, Meijing e Jasper, di Shangai e Hong Kong.

Il fatto di non aver mai intimamente classificato le persone care come “non bianche” mi ha portata a riflettere sul fatto che uso parole relative all’etnia solo quando parlo di persone che non mi sono vicine, per aiutare l’interlocutore a individuarle nel nostro Indovina Chi mentale.

Sono consapevole del fatto che la questione etnica, qui in Italia, abbia una storia e una cronaca completamente diverse e non paragonabili alle vicende, vecchie e nuove, degli Usa. Per noi, nei grandi numeri, è meno frequente ritrovarci a vivere o ad assistere ad interazioni importanti in cui il colore della pelle giochi un ruolo di rilievo.

Siamo molto più “normalmente bianchi” rispetto agli Stati Uniti e certe istanze ed esigenze sono difficili da comprendere proprio perché manca una voice non bianca, forte, quotidiana che parli la nostra lingua e ci sputi in faccia la verità.

Io stessa sono la terza generazione di una famiglia di profughi ma, salvo sporadiche battute e fraintendimenti, io la questione etnica non l’ho mai subita.

I miei avi di cognome fanno Schneeweis, che letteralmente significa “bianco neve”, e anche se sono morti di fame e malattie nella fuga dalla loro terra e per anni hanno vissuto nella Babele dei quartieri per rifugiati, sono profughi europei. Sono pallida come il latte, ho le lentiggini e i miei capelli in estate diventano rossi.

Vorrei però sbloccare per tutti il gusto dell’identificazione mancata. Un esempio tratto da un terreno che invece conosciamo tutti molto bene potrebbe funzionare: il terreno del genere.

Sempre io che attingo ai miei ricordi. Vivo a Padova e vicino al casello di Padova Est c’è il grande “ponte Darwin”, chiamato così perché è decorato con la gigantografia dell’evoluzione della specie. Si vede la scimmia che, immagine dopo immagine, si alza su due zampe, conquista gli utensili, cambia fisionomia fino ad arrivare ad essere la nota silhouette di un maschio bianco degli anni Cinquanta, a giudicare dal taglio di capelli che ricorda quello di Ken.

Passando sotto a questo ponte, in auto con un amico di idee dichiaratamente progressiste, ho detto: “Fanno sempre vedere che la scimmia si trasforma in un umano maschio: visto quanto hanno celebrato sto ponte, fatto trenta potrebbero fare trentuno e mettere come ultima immagine la silhouette di una donna”. Il mio amico si è detto offeso (addirittura!) da questa idea, perché l’evoluzione della specie si rappresenta “così e basta”.

Da quel giorno, ogni tanto ho voglia di andare sul ponte con una bomboletta per aggiungere chioma e curve da Bond girl a quell’ultima immagine.

Qui in Italia molti lavori di rilievo e cariche pubbliche hanno un nome maschile. Quante battute sono state fatte sulla scia del “Ahahah allora sei una architetta, ahahah tette”? Quanto ancora può suonare male sentire “la sindaca” o “la ministra”?

Il punto è che lo status quo è invisibile agli occhi, e a volte resta invisibile anche quando è costruito con elementi che potenzialmente ci danneggiano. Una delle possibilità in mano a chi si occupa di comunicazione è provare, con i propri mezzi che saranno sempre imperfetti e criticati ora da un gruppo, ora da un altro, a lanciare un sassolino dopo l’altro sullo status quo, per fare la propria parte nell’evoluzione della società. In questo senso, anche una cosa stupida come l’emoji nera o la pubblicità di Zalando, magari zoppicando, probabilmente va nella direzione giusta. 

Alla prossima.