Quando una società è arrivata a ritenere praticamente soddisfatti tutti i bisogni essenziali, inizia a soddisfare anche quelli accessori, e poi?
E poi arriva il consumismo ad inventare nuove esigenze, a spostare un po’ più in là l’asticella della soddisfazione negli ambiti in cui pensavamo di essere già a posto, e a trasformare qualsiasi cosa in un prodotto, perché solo così lo si può marchiare e mettere su uno scaffale per provare a venderlo.
Ma come si può vendere la bellezza?
Ve lo raccontiamo con tre esempi completamente diversi.
IL PRIMA E IL DOPO: LA NARRAZIONE DEL BEFORE AND AFTER
Il potere di “porre i termini della questione” è un’arma molto potente, e chi la detiene può impedire all’interlocutore di trovare soluzioni logiche e soddisfacenti.
Quando si parla di bellezza e dintorni, una delle grandi narrazioni pone i termini della questione come “prima e dopo”/”before and after”. Lo spettatore viene spinto a sentirsi un potenziale cliente da una narrazione che lo identifica con la fase imperfetta, sbagliata, immatura incompleta: noi siamo il “prima”, siamo quello che non va bene.
Con il prodotto, possiamo elevarci al “dopo”, essere migliorati, con benefici a cascata che andranno a portarci piaceri sconfinati in ogni ambito della vita.
A questo punto, sui benefici (dubbi) che si diffondono in tutti gli ambiti della vita grazie all’uso di un solo prodotto, è d’obbligo un cammeo per Nuvenia. Dopo anni di slogan sull’onda di “sicura e vai”, con donne che scelgono immancabilmente i giorni del ciclo per fare dal rafting alla lotta greco-romana, Nuvenia se ne esce con un concetto rivoluzionario per il settore. Se prima pareva che con un assorbente di un certo marchio ti venissero i superpoteri, proprio “in quei giorni”, Nuvenia ammette che non è vero, i benefici sono limitati al comfort e alla qualità dell’assorbente. Lo slogan relato è riassumibile in: “i nostri assorbenti assorbono bene e aderiscono bene, tanto che ci puoi fare veramente la qualunque. Ma puoi, non è che devi!” chiudendo con l’immagine della testimonial che sta benissimo acciambellata sul divano di casa sua.
Gli step verso la normalizzazione del ciclo mestruale sono stati vari e non tutti felici, ma tutti hanno portato ad un linguaggio odierno, in grafica e sintassi, al top dell’emancipazione.
Haters gonna hate.
Ma torniamo alla bellezza: prima e dopo. Perché devo sempre essere identificata con il “prima”? Perché faccio sempre schifo a prescindere? La risposta è: perché altrimenti non mi sento male e non cerco di comprare il rimedio. La narrazione before and after ha incontrato il grande spigolo della body positivity, che invece di lottare per un giusto linguaggio è stata strumentalizzata, di fatto, per essere rivenduta di nuovo sotto forma di prodotti.
Come nella saga delle pubblicità degli assorbenti, anche qui l’emancipazione per gli esseri umani passerà attraverso vari step, e su ogni step si allungherà la mano invisibile che vuole spacchettare e vendere qualsiasi cosa veda sul piatto, il prima possibile, a più persone possibili.
IL MONOLOGO DI BLACK MIRROR
La tendenza alla mercificazione di “oggetti” tangibili e non, pur di renderli vendibili, si fa forte dell’ampliamento dei bisogni, dell’induzione di presunti bisogni. Abbiamo saziato la fame e la sete, procurato un rifugio.
La fame deve essere ora saziata con cibi nuovi, in modi nuovi, in posti nuovi. La sete si spegne grazie a bevande che, anche se sono semplice acqua, hanno proprietà incredibili, per non parlare delle bevande che ti mettono le ali, ti danno il senso dell’estate, sono buone qui e buone qui. Il rifugio deve essere ben arredato, pulito dal 99,99% dei batteri, essere postato sui social, essere condiviso, deve avere una serie di optional tecnologici e futuristici che chiameremo “XXX casa”.
La tanto elogiata, e mai abbastanza elogiata, serie tv Black Mirror penetra come un coltello caldo nel burro del futuro che sta per venire. La rincorsa al prossimo oggetto must have non ci dà virtualmente tregua.
Qui sotto il sensazionale Daniel Kaluuya, già premio Oscar, nell’indimenticabile scena del monologo di Black Mirror – 15 milioni di celebrità.
Il nostro stesso corpo ci viene messo in vendita attraverso accessori che puoi acquistare, trattamenti che puoi acquistare, filtri che puoi acquistare, storytelling che puoi acquistare, tutte proposte che fanno salire la FOMO* in ogni nostro minuto di veglia.
Come fare a venderci la nostra stessa bellezza? Come fare a vendere la bellezza a chi bello non è? Ma soprattutto come fare ad ampliare i canoni della bellezza, che sono descritti e ristretti in ogni epoca? L’ultimo claim, la body positivity, diventa un’arma a doppio taglio, spesso ridotta crudelmente a moda del momento.
*Fomo: Fear of missing out, letteralmente “paura di essere tagliati fuori”.
ODIO IL GREEN WASHING. MANNAGGIA ANCHE IL BODY-POSITIVITY WASHING
Il prima e dopo ha spesso un effetto scoraggiante. Lo spinoso problema di salute pubblica legato alla crescente percentuale di popolazione, sempre più giovane, che si trova nella fascia dell’obesità pone al marketing senza scrupoli un problema che viene ridotto a risorsa dalla logica di mercato.
Se la percentuale di clienti con una situazione medica di allarme legato al peso cresce, tale popolazione diventa sempre più interessante perché rappresenta un target profilato, con necessità specifiche.
Viene saltata a piè pari la soluzione del problema, che sarebbe un rinforzo positivo delle pratiche salutari per rientrare nei parametri salutari: questa sarebbe una visione di lungo periodo poco remunerativa.
Il consumismo ti vuole consumare e far consumare adesso. Le vie sono due.
La prima è dirti che così non vai bene e che devi intervenire comprando questi prodotti.
La seconda è dirti che così stai benissimo e vai alla grande, che 200 kg sono ok, e che puoi esaltare le tue forme comprando questi altri prodotti.
Il punto è che non bisogna lasciarsi tranquillizzare ad occhi chiusi. È importante distinguere la body positivity che ci emancipa dal body positivity washing che ci segmenta, come un target, e ci vende soluzioni che rischiano di non risolvere proprio niente per più di qualche giorno.
Vediamo finalmente i tre esempi di pubblicità che si approcciano al consumatore in cerca di bellezza in modi diversi:
- Somatoline: sei emancipata solo se ti giudichi bella (purché magra e senza cellulite);
- Dove: sei bella quando sei acqua e sapone, rilassati. A proposito, questa è l’acqua e noi siamo il sapone;
- Zalando: siamo tantissimi, amiamo persone diverse, siamo tutti diversi, tutti favolosi e imperfetti. Tu intanto amati, poi ti vestiamo noi.
SOMATOLINE: ANSIA DA PRESTAZIONE – COMUNQUE UNA NICCHIA
Somatoline, celebre crema anticellulite, sceglie una testimonial con pro e contro: miss Italia.
Scegliere una miss che presenta una modella che corre in boxer attraverso una città futuristica è un boomerang comunicativo.
Se da una parte è “il modello” di chi vorrebbe gambe e glutei senza cellulite, dall’altra fa sbuffare con una grande “Seh” tutte le donne meno alte, meno longilinee, meno fotogeniche e meno atletiche di una modella che… diciamocelo: dove trova il tempo di andare a correre? Non lavora? Non ha bambini, partner, animali che la intralciano ogni volta che vuole uscire per correre? E il lockdown? Non deve pulire casa? Per correre si fa la ceretta prima? Ha un guardaroba di vestitini anche per lo sport?
Ah, ma forse la magia non la fa Somatoline, ma il suo entourage di massaggiatrici, spa, truccatrici, grafici per il ritocco foto e video.
Se da un lato la giovane tonica e vincente è un traino per chi si sente competitivo, dall’altro perde credibilità, mostrando una situazione praticamente fantascientifica.
Prima = tu con la cellulite = sei giudice di te stessa e ti vedi male
Dopo = tu senza la cellulite = sei giudice di te stessa e ti vedi bene
Però = prima mica giravi con gli shorts in pieno centro, perché prima dovevi subire il giudizio altrui perché eri brutta. Poi, solo dopo che Somatoline ti ha fatta bella, puoi fare la emancipata che non ha più bisogno di scoprire le belle gambe, gambe che comunque farebbero sollevare solo le palette col 10 alla giuria.
È una pubblicità così vecchia e arrancante che è difficile anche andare avanti a scriverci.
Un elemento che disturba l’esperienza della visione è il fatto che il testo sia stato composto e recitato da Andrea Delogu, la celebre miss che ha fatto diversi coming out riguardo alle imperfezioni del proprio corpo. La Delogu (sotto) ha mostrato in pubblico la sua cellulite e la sua panciera di scena, elementi agli antipodi dello storytelling della impeccabilità estetica che poi viene esaltata nello spot.
DOVE: SAPPIAMO COSA C’È DIETRO (POCO) E COME CI VIENE RACCONTATO (BENE)
Dove è prima di tutto un sapone, e non si mette a fare i salti mortali dicendo che ti regalerà la Luna.
Ti regalerà una faccia pulita e una pelle morbidina, visto che come tutti sappiamo contiene della crema idratante. Chi usa Dove sa che non fa tirare la pelle, perché lava, sgrassa, ma poi consola la pelle con la sua formulazione. Niente di magico, è come lo shampo&balsamo o il detersivo&brillantante.
Il fatto di essere un prodotto “poco più che banale” ha ispirato il marketing, che ha aperto le porte in modo sorprendente alle donne “vere”. Quelle che possono essere anche cicciottelle, coi fianchi che sbucano da sopra l’elastico delle mutande come un muffin ben lievitato. Quelle che possono avere lentiggini grandi come una moneta, che possono avere i capelli bianchi, o corti, o niente capelli. Quelle con le tettine o con le tettone, quelle con la fessura in mezzo ai denti, quelle col sorriso sbilenco. Quelle basse.
Perché alla fine queste donne così varie, che permettono a tutte le spettatrici di identificarsi almeno con una di loro, si sono lavate le mani e il viso col Dove e si sono trovate davvero bene.
Dove poi è anche una linea di prodotti, che dal 2004 ha scelto una body positivity che si scontra con il trend delle modelle magrissime, ricorrendo a una varietà di donne su cui testare Dove “su curve vere”. Non su curvy vere, ma su donne dalle proporzioni realistiche, che coprono un buon range di posizioni lungo l’indice di massa corporea.
Nel 2013 una ulteriore svolta: come mi vedo io versus come mi vede un estraneo. È la Real beauty sketches campaign, la campagna pubblicitaria che mette a confronto come descriviamo noi stessi ad un ritrattista forense, con come veniamo descritti da una persona che ci vede per la prima volta.
Una delle testimonianze delle donne ritratte, che ha visto la differenza fra la propria percezione di sé e le impressioni di un occhio estraneo, va al punto:
“Devo essere più grata per la mia bellezza naturale. Ha un impatto sulle nostre scelte, sulle amicizie che scegliamo, sui lavori per i quali ci candidiamo, sul modo in cui trattiamo i nostri figli. Ha un impatto su tutto. Non potrebbe avere un peso più critico sulla nostra felicità”.
Qui il concetto del prima e dopo evapora per lasciare posto a quello dentro e fuori, io e gli altri, e racconta una storia che coccola e rinforza i sentimenti di amore per se stessi senza ansia, praticamente senza usare il prodotto.
Perché la felicità viene dal sapere che sei più bella di come credi. Poi se compri questo sapone sai che comunque non avrai la pelle che tira, e anche questa è una cosa bella.
Al passo coi tempi, sulla cresta del social, sapendo le forche caudine a cui ci si auto-condanna per un pugno di love reactions, ecco una delle ultime campagne di Dove, quella del selfie al contrario.
Non si tratta di un percorso a ritroso nell’incubo e nell’amarezza, non stiamo risalendo il fiume di Apocalypse Now per incontrare Kurtz, anzi: data l’indigestione di influencer ultra filtrati e artefatti a cui siamo stati sottoposti, questo spot è acqua fresca, e la ragazza normale, con le luci e le ombre degli spigoli del suo vero viso ci piace, anche il suo brufolo è una coccola per la nostra sensibilità che sta facendo il callo dopo aver percepito troppa perfezione artificiale.
La narrazione del prima e dopo, nello spot del selfie al contrario, è smontata e capovolta. Il prima è così bello che non ti importa del dopo.
ZALANDO. COSA VEDO IN QUESTA SCATOLA
Zalando pare giocarsela sul filo di un’inclusività forzata del politically correct modaiolo alla Netflix.
Ricapitolando: la bellezza è difficile da vendere se te la mostro irraggiungibile o, almeno, fissando l’asticella troppo in alto si va a scoraggiare una fetta di pubblico. La soluzione è un divide et imperat del consumismo. Divido, o meglio, segmento il target per fare centro in gruppi ristretti, ai quali fornisco una identità dallo storytelling affascinante che mostra come potersi soddisfare in fretta, acquistando il prodotto o il servizio giusto. Qui davvero si aprono le gabbie e ci troviamo di tutto, ogni centimetro quadrato di corpo è mercificato in tutti i modi possibili, e abbiamo soluzioni ad hoc, dalla crema per il contorno occhi allo shampoo per capelli mossi fino al prodotto sbiancante per l’ano.
Zalando sceglie una giustapposizione di scene forti che picchiano duro, una dopo l’altra.
Lo spot della primavera 2021 di Zalando va guardato più volte per capire cosa stia facendo.
Abbiamo un testimonial queer mutilato e seminudo, un nero sovrappeso che, da sotto il suo berrettino di Playboy, si tiene stretto stretto, mano nella mano col ragazzo, e insieme guardano un video, una donna obesa che posa in intimo davanti all’obbiettivo e condivide il video di un onirico rave, un transessuale che mostra le cicatrici dell’intervento ancora in via di guarigione mentre una transessuale che entra nel bagno delle donne dopo aver disegnato sul cartello un pene gigante che pende dalla gonna della figurina stilizzata, una ragazza che bacia il moncherino del ragazzo con cui è a letto.
Nel montaggio caotico, degno di un trailer da colossal Marvel, c’è un filo conduttore: ognuno è un testimonial. Alcuni si esprimono esaltando quello che li rende unici e la condivisione dei contenuti home made arriva a dei singoli sconosciuti, che vengono ispirati e incoraggiati a volersi bene e accettarsi, mostrarsi, in una spirale virtuosa di esempi di amore per sé che si diffonde fuori controllo.
La colonna sonora, della quale vediamo le fasi di creazione nei primi secondi dello spot, martella con il suo “Just Tryna be myself not you”, sto solo cercando di essere me stesso e non te.
Essere uno spettatore italiano non aiuta a cogliere la verve emancipatrice dello spot, ma ragionando in termini occidentali si può cogliere come il nostro black mirror, lo schermo dal quale attingiamo al mondo, abbia un filtro decisamente non-black e decisamente non-molte altre cose.
Facendo un passo indietro per restare nel nostro Occidente “safe” ma uscendo dalla nostra nicchia made in Italy, prendiamo un paio di impressioni da fuori per aggiustare la veridicità del filtro.
Iniziamo con il monologo di Samuel L. Jackson, nel ruolo di se stesso, in Death to 2020.
Con la pandemia che all’inizio del 2020 è ancora una minaccia che pare non ci toccherà, l’Occidente si concentra sulle questioni importanti. Come gli Oscar, “che tradizionalmente celebrano la cinematografia caucasica”. Parla Jackson:
“Già, i candidati a Miglior Film! Una vera coalizione arcobaleno! C’era Storia di un Matrimonio, due bianchi depressi intrappolati in un matrimonio ricco. Le Mans ‘66 – La grande sfida, gente bianca su ruote. Piccole donne, quattro ragazze bianche con la puzza sotto al naso. E Joker, il cui protagonista ha il viso dipinto di bianco, appropriandosi così della sua stessa identità culturale, e rubando la parte a un vero clown. Oh, e 1917, che è l’anno in cui è ambientato il film, e il numero di attori bianchi che ci recitano.”
Una seconda suggestione è data dai dati nudi e crudi di worldometers.info, un database che aggiorna in tempo reale le statistiche circa dati salienti per il pianeta e per la popolazione mondiale.
Guardiamo l’immagine qui sopra. Il dato di spesa nell’ultima riga dà la dimensione di come la body positivity che difende l’obesità come un diritto e spinge ad esibirla come un vanto sia sperabilmente un momento passeggero, uno step ibrido nella maturazione di una consapevolezza davvero benefica.
Queste due impressioni dal resto dell’Occidente servono a mostrare come almeno due delle questioni riportate nello spot, body positivity e monopolio culturale bianco, siano istanze reali anche se non rientrano nella nostra agenda nazionale. La fotografia di worldometer giustifica come la segmentazione del mercato per indice di massa corporea sia fondato da numeri impressionanti ed in crescita, diventando un target che il consumismo deve voler ammaliare.
Zalando pone infatti un certo accento sull’accettazione del sovrappeso, accomunandolo all’accettazione dell’omosessualità, delle etnie non bianche, della menomazione fisica, della disforia di genere.
Può essere letta come una trasversalità ipocrita di chi vuole mettere un piede in 5 scarpe.
Può anche essere letta come il tentativo riuscito di creare un contenitore di istanze variamente critiche per dare dignità a diverse situazioni.
Si tratta di circostanze che sono tutte all’origine di un discomfort emotivo che nella contemporaneità non deve avere spazio.
Senza entrare nel merito della singola criticità – parliamo di caratteristiche, tutte, che non sono accettate all’unanimità, inutile nascondersi dietro a un dito – troviamo uno spot che farà parlare, e questo può avvantaggiare sia il brand che le categorie rappresentate dai testimonial.
Che se ne parli fino alla noia, che se ne vedano fino alla noia, che si arrivi a non pensare mai più ad una persona come “quello trans”, “quella nera”, “quello senza la mano”, perché questi saranno relegati a dettagli non più fondanti del giudizio verso un individuo.
La narrazione del prima e dopo, che troviamo lineare in Somatoline, invertita o evanescente in Dove, diventa circolare e senza tempo in Zalando: il cerchio dei miei pari, anche lontani, mi aiuta a stare bene.
Non è la maglia di Zalando che mi dà gioia: la maglia di Zalando mi va bene e la trovo evidentemente di tutte le taglie, ma la mia felicità deriva dalle altre persone.
Dalle persone toste che provano ad essere se stesse e stare bene, che mi parlano del loro sentirsi ok anche se non mi conoscono, che mi ispirano e mi fanno stare meglio con me stesso.
Conclusione: ci sono cose che non hanno prezzo. Per tutto il resto c’è Mastercard. Giusto?
Alla prossima
IL MONOLOGO DI BLACK MIRROR (STAVOLTA PER DAVVERO)
Io non ho preparato proprio nessun discorso, non ci ho neanche provato. Volevo solo riuscire ad arrivare fin qui per farmi ascoltare da voi. Per costringervi almeno una volta nella vostra vita ad ascoltare davvero qualcuno invece di starvene lì a far finta di farlo.
Vi accomodate a quel tavolo, guardate verso questo palco e noi ci mettiamo subito a ballare, a cantare, come dei pagliacci. Per voi non siamo delle persone, voi non ci vedete come degli uomini quando siamo qui ma della merce. E più siamo falsi e più vi piace perché è la falsità l’unico valore ormai, l’unica cosa che riusciamo a digerire. Anzi no! Non l’unica, il dolore e la violenza: accettiamo anche quelli.
Attacchiamo un ciccione ad un palo e iniziamo a deriderlo perché crediamo sia giusto. Noi siamo quelli ancora in sella e lui è quello che non ce l’ha fatta “ahah che scemo!“. Siamo talmente immersi nella nostra disperazione che non ci accorgiamo più di nulla. Passiamo la nostra vita a comprare cazzate. Tutto quello che facciamo, i nostri discorsi, sono pieni di cazzate.
Insomma sapete qual è il mio sogno? Il mio sogno più grande è comprare un cappello per il mio avatar“: una cosa che neanche esiste! Desideriamo stronzate che neanche esistono! E siamo stufi di farlo.
Dovreste darci voi qualcosa di reale ma non potete, giusto? Perché ci ucciderebbe. Siamo talmente apatici che potremmo impazzire, c’è un limite alla nostra capacità di meravigliarci.
Ecco perché fate a pezzi qualunque cosa bella che vedete, e solo a quel punto la gonfiate, la impacchettate e la fate passare attraverso una serie di stupidi filtri finché di quella cosa non rimane che un mucchio di inutili luci mentre noi pedaliamo, giorno dopo l’altro, per andare dove? Per alimentare cosa? Delle celle minuscole con dei piccoli schermi. E sempre più celle e sempre più schermi e quindi fanculo!
Fanculo il vostro dannato spettacolo! Fanculo! Fanculo voi, che ve ne state lì e non fate nulla per cambiare le cose! Fanculo le vostre telecamere e i vostri maledetti canali! E fanculo tutti per aver trattato la cosa più cara che avevo come se non valesse nulla, per averla afferrata e trasformata in un oggetto, in un giocattolo, l’ennesimo orribile giocattolo in mezzo a milioni di altri! Fanculo! Fanculo a tutto quanto! Fanculo per me, per noi, per tutto il mondo! Fanculo!