Quella che Internazionale (Internazionale 1431 | 15 ottobre 2021) definisce una “rivoluzione silenziosa” è in atto da oltre un anno.
La possibilità di lavorare fuori dall’ufficio è stata integrata in modo improvviso ed esteso, e oggi si possono fare i primi bilanci.
Lo smart working fa bene o fa male? Chi ne ha tratto beneficio? Quali sono le conseguenze per le imprese e per i lavoratori? Come influisce sulla vita privata, sulla carriera e sul mondo del lavoro?
SMART WORKING: COSÌ, DEBBOTTO, SENZA SENSO
La citazione di Boris può sembrare poco centrata rispetto all’argomento e allo sviluppo dello smart working: è stato “debbotto”, ma sarà stato anche senza senso?
Dopo quasi due anni di studio del virus e di raccolta dei dati, no, un senso c’era: limitare al massimo le possibilità di contagio agli inizi della diffusione di un virus molto impattante e per il quale non c’era una cura efficace. Certo, l’inizio della gestione sociale del virus è stato caotico e quasi tutti i leader delle varie nazioni hanno seguito l’iter:
- negare la gravità del virus
- puntare il dito contro una qualche nazione estera con embarghi più o meno fantasiosi
- correre ai ripari quando ormai la situazione era ingestibile a livello nazionale
Ci ricordiamo lo stop ai viaggi, gli accessi contingentati, gli esercizi gestiti da cinesi chiusi ancora prima del lockdown a causa delle violenze e degli atti di vandalismo contro i loro locali, l’obbligo di indossare i guanti anche per strada, mascherina consigliata anche in casa, caos.
Sul luogo di lavoro, dopo un fermo istantaneo che ha coinvolto tutto, dalla scuola ai trasporti ai servizi fino all’industria pesante, i disagi sono stati modulati con una serie di più o meno pronte reazioni, ed è così che si è diffuso lo smart working: alla velocità della luce.
Se alcune misure, oggi, possiamo etichettarle come “senza senso”, c’è chi contesta ancora oggi tutte le imposizioni sanitarie che invece fanno la differenza fra uscire dalla lunga emergenza e rimanere ostaggi di un virus che più persone contagia e più chances ha di mutare sempre più drasticamente e riportarci alla casella di partenza.
Al netto di ogni valutazione, di fatto lo smart working è calato come una bomba in tutti gli uffici, pubblici o privati.
SMART WORKING: PERCHÉ E PER CHI SÌ
Internazionale riporta i dati aggregati e le interviste di un riassunto francese della questione: c’è chi dallo smart working ha saputo trarre molti benefici. Si parla dei singoli lavoratori ma anche delle aziende nel loro insieme.
Se per il singolo si parla di taglio alle spese di trasporto, cibo fuori casa, abbigliamento, modulazione dell’orario in funzione delle esigenze private.
Le aziende d’altra parte, una volta messa a fuoco la situazione e fatte le dovute previsioni, hanno potuto sganciare buona parte delle risorse da spese ormai inutili, come l’affitto delle grandi sedi, per investire in altro o ideare nuovi modelli aziendali (ad esempio, c’è chi ogni tot mesi parte per una settimana semi-vacanziera con tutto il personale!).
A livello psicologico di rapporto di lavoro, si passa dal controllo alla fiducia, con i relativi effetti positivi.
Molti impiegati hanno aumentato la produttività, ma a che prezzo?
SMART WORKING: PERCHÉ E PER CHI NO
Viene da chiedersi: qual è l’elemento che dà vita a una squadra, a un’azienda vera, a un gruppo di persone con una missione comune?
Gli elementi sono molteplici, ma tradizionalmente la condivisione dell’ufficio, del capannone, dello spazio fisico era quello che distingueva chi è dentro, parte del gruppo, da chi è fuori.
Con lo smart working si è praticamente tutti fuori, con il rischio di ritrovarsi a fare i conti con tutto il brutto dell’outsourcing: disaffezione, scarso coinvolgimento, impossibilità o quasi di fare carriera, deresponsabilizzazione, elevato turnover.
Dati alla mano, si può capire come una parte di lavoro comunque in presenza, o meglio in compresenza dei colleghi, aiuti a migliorare l’esperienza e le aspettative di lavoro. Se infatti in alcuni segmenti la produttività è aumentata con lo smart working, le promozioni sono state largamente distribuite fra chi lavorava in compresenza coi colleghi.
Questo non perché il controllo dia al management più certezze sulla qualità del lavoro rispetto alla fiducia, ma perché è nel team che nascono le soluzioni creative, che si può chiedere al collega più anziano, imparare da lui, elaborare strategie vincenti grazie al confronto coi i più esperti, o grazie all’apporto innovativo dei più giovani.
Lo smart working inoltre dipende qualitativamente anche dalla realtà che si trova a casa propria. Un single o una coppia senza figli possono essere più concentrati e produttivi rispetto a chi ha figli piccoli, vicini invadenti, parenti della famiglia variamente allargata che convivono sotto lo stesso tetto.
LO SMART WORKING È RESISTENTE
Dando un’occhiata ai dati riportati da Internazionale, si ha una fotografia della mobilità lavorativa dal punto di vista sia dell’occupazione/non occupazione sia dal punto di vista della sede (ufficio o smart working). I dati campionano la distribuzione lavorativa e di sede dei dipendenti privati, ad esclusione del settore agricolo, fra aprile 2020 e luglio 2021.
Aprile 2020: la popolazione è divisa in 4 segmenti praticamente identici, del 25% l’uno, in cui vengono raggruppati lavoratori in sede, in smart working, disoccupati e altro (congedi, malattia etc). Con il passare dei mesi, lo smart working resta quasi sempre saldamente attorno al 20%, mentre crescono o decrescono tutte le altre posizioni.
Abbiamo ad esempio un picco di disoccupazione autunnale nel 2020, una buona ripresa delle assunzioni da febbraio 2021, un andamento altalenante ma tendenzialmente in crescita del lavoro in sede.
Internazionale recita:
“Molte persone stanno tornando in ufficio dopo mesi di lavoro a distanza. Ma niente sarà più come prima. I dipendenti vogliono un nuovo equilibrio tra il lavoro e la vita privata, e le aziende dovranno accontentarli.”
Lo smart working, lanciato nella mischia l’anno scorso, pare proprio che sia arrivato per restare.
Alla prossima.