K89 ha intervistato AXE, uno dei writers padovani che ha fatto la storia della street art cittadina.
Siamo stati nel suo giardino a farci raccontare come ha iniziato, chi sono stati i suoi maestri, come vede il futuro della street art.
In un pomeriggio di chiacchiere e relax abbiamo raccolto storie note e racconti inediti dalla viva voce di uno degli artisti che hanno reso Padova una grande città di graffitari di fama internazionale. Avevamo anche una lista di domande, all’inizio, ma parlando con un maestro di curve evanescenti, colori e volti che prendono vita da un freddo muro abbandonato, anche la nostra intervista è diventata fluida, liquida e si è trasformata in una treccia di passione e riflessioni spontanee, colorate ed inaspettate.
Benvenuti nel mondo di AXE.
Cercando di ricreare una trama pescando i fili dalla cesta di aneddoti in formato gomitolo e monologhi srotolati come una bobina veloce, ecco cosa ci ha raccontato Axe dei suoi inizi.
L’arte figurativa è entrata di soppiatto nella sua vita, e molto presto Alex Ermini, il ragazzetto che disegnava sempre una sedia, è diventato l’AXE delle pareti decorate con la cosa più bella del mondo: il volto di una donna.
Sì, i miei disegni inseguono quello che per me è il bello, con un po’ di responsabilità nel messaggio.
Costruito in un modo tutto mio, la cosa che mi piace più rappresentare e che mi emoziona è il volto, e amo disegnare il viso di donna.
È così affascinante, espressivo, e racchiude un mondo di emozioni, in generale il ritratto è il mio soggetto preferito.
Attorno al ritratto, soprattutto femminile, si sono evoluti la mia tecnica e gli strumenti per realizzare i pezzi.
Io, per educazione, sono anche un grafico, e dalla squadra al pc ho usato tutto.
Ma l’amore per il disegno è arrivato ancora prima.
Ricordo il giorno in cui Giuseppe Siccardi, un pittore amico di famiglia, ha preso un foglio e mi ha fatto vedere come si disegna una sedia usando i due punti di fuga.
Le prime sperimentazioni della prospettiva mi hanno appassionato, ho capito come poteva cambiare un disegno spostando i punti di fuga.
Ho iniziato a disegnare una sedia dopo l’altra.
Poi in realtà, quando ho iniziato a disegnare le mie cose, il focus è sempre stato sui volti.
Anche quando ho cominciato coi primi disegni, a cui volevo dare un’impronta underground, curavo i volti.
Che fosse il maiale con un cannone in bocca, o il cinghiale, o il Paperino accigliato in versione underground, ok, ma tutti avevano dei tratti di volto umano.
Certo, il messaggio di queste prime opere era ribelle, per l’immersione e il piacere del messaggio graffiante della cultura underground, ma l’elemento antropomorfo c’era da subito, e si è evoluto nella ricerca del ritratto che dà un messaggio universale.
Parliamo del messaggio, allora. La street art deve comunicare qualcosa? Vuole comunicare?
E cosa comunica, nei pezzi tuoi e degli altri graffitari?
Queste opere vengono viste da tantissime persone, come si sceglie cosa dire a chi, volente o nolente, quei disegni li vede, magari una sola volta passando in auto, o magari tutti i giorni aprendo le finestre di casa?
La street art comunica di base, perché stai facendo qualcosa di tuo all’esterno, per strada appunto.
Anche il disegno su una parete abbandonata, in un luogo poco frequentato, comunica, comunica sempre.
Qui ci sarebbe molto da dire.
Le dimensioni dei pezzi, la riconoscibilità delle tag, sono tutte cose che vengono fatte su supporti molto esposti per essere visibili a più persone possibile.
Nel caso del writing il tuo stile deve essere visto specialmente dagli altri writer creando una sorta di guerra di stili ( da vedere Style Wars del 1983 ).
Innanzitutto, non diventi un writer se non hai una grande passione, ma così grande che ti faccia superare tutti gli ostacoli per poter arrivare a realizzare il tuo disegno.
Il materiale costa. Le pareti sono difficili da trovare.
Puoi fare un lavoro abusivo, con tutto quello che ne consegue a livello di ansia, rischio di venire arrestato e di non riuscire a finire il pezzo.
Oppure scegli di lavorare con calma, ma anche lì una buona parete ti può costare molto in termini di tempo e di materiale: la procuri con ispezioni in giro per la città, o contrattando coi privati o con l’amministrazione pubblica.
La parete va poi preparata, grattata e imbiancata. Sono tante ore, che diventano giorni.
Se poi è una parete collettiva c’è tutto il lavoro della crew già solo per arrivare davanti al muro con gli spray.
Quando realizzi l’opera si parla di tanto tempo, a volte da solo, ma anche insieme ai ragazzi, a parlare, a condividere informazioni, a trasmettere tecniche e segreti del tuo modo di disegnare, coltivando quella cultura un tempo molto più underground, di cui i writers sono una delle espressioni.
Realizzare il pezzo comunque è impegnativo.
Sia che fai bombing che pezzi di grandi dimensioni l’impegno è sia mentale che fisico.
Puoi essere come un ninja in azione o un monaco tibetano che fa un mandala ma la fatica fisica e di concentrazione a volte stremante è qualcosa che ti sobbarchi se vuoi poter dire qualcosa.
Nei miei disegni, ora, racchiudo un messaggio positivo, che si unisce alla piacevolezza delle figure che scelgo.
Credo che lo street artist abbia una grande responsabilità verso tutti i fruitori della sua opera.
Personalmente sento molto questa responsabilità.
Vi faccio un esempio al contrario: durante un evento uno degli artisti ha deciso di esprimere il suo messaggio di protesta con delle enormi pantegane nere alte 20 metri.
Il messaggio era forte e sensato, ma in questo caso io mi sarei messo nei panni di chi abitando di fronte all’opera si sarebbe trovato a vedere queste pantegane ogni mattina aprendo le finestre di casa.
In questo senso vedo uno sbilanciamento verso il messaggio che si vuole lanciare, che qui è prioritario, e la responsabilità verso chi quelle opere, pur create con intenti nobili di sensibilizzazione, se le deve in qualche modo subire ogni giorno.
Questo codice di responsabilità in quello che voglio comunicare mi impone di non usare immagini disturbanti, sarebbe un piacere più personale, cerco sempre di mettermi nei panni di chi è poi il fruitore delle mie opere, perché in quella via o in quel quartiere ci vive.
Durante il lavoro in Corso Milano, per il quale avevamo tutti i permessi, una signora si è fermata a dirmi che le piaceva il disegno.
Poi all’improvviso ha visto i teschietti negli ornamenti ed è impazzita, aiuto aiuto, chiamo la polizia, stai disegnando una cosa brutta, i teschi!
Al di là del dispiacere nel vedere che il messaggio non viene colto, ho posto attenzione al fatto che in effetti è una mia responsabilità quella di imporre la mia opera a tantissime persone non conoscendo la loro sensibilità. Quindi a volte maschero il messaggio.
Ti devi mettere nell’ordine di idee che hai un ruolo nella società, e in gran parte lo scegli tu. Qui devi essere furbo.
Se uno arriva alla conclusione di volersi porre come maestro o critico della società, così come fa Banksy, deve essere davvero abile.
Banksy è uno che ora si può permettere di unire dei significati pungenti ad un estetica molto poetica per quanto spesso provocatoria.
Certo, a volte rischia di scadere nella retorica, ma è stato bravo a sfruttare a suo vantaggio le risorse che aveva e a poter ormai far accettare quello che vuole, nel modo che vuole.
Di cosa parliamo, quindi? Accettazione? Integrazione? Compromessi? Normalizzazione? Questo tuo sentimento di responsabilità sembra un po’ in antitesi rispetto al graffitaro ribelle, ai margini della società, con una doppia vita.
Eh, qui sarebbero da condensare 50 anni di storia della street art in pochissimo tempo, e la memoria storica non esiste quasi al di fuori della memoria di chi ci vive dentro.
Argomento ostico, diciamo che il concetto di street art si è sviluppato un po’ lungo due filoni.
Chi fa bombing, e rimane in una street art strettamente abusiva, e chi lavora più in linea con un concetto di integrazione, di arte urbana.
All’inizio ero un po’ più sull’abusivo, che però aveva cose che non mi piacevano, come la fretta!
A me è sempre piaciuto cercare il segno giusto, il colore giusto.
Sarà perché ho sempre dipinto anche prima.
Poi, certo, i graffiti mi hanno segnato: lo spray mi ha affascinato da subito e dopo la prima fase si è trasformato in qualcosa di più pittorico, paragonabile ad un pennello davanti la tela.
Il fatto di avere tempo, luce diurna, mi dava l’opportunità di fare un lavoro come piaceva a me.
Per andare al cuore della domanda, siamo in un periodo storico in cui la grande ed estesa lotta passata per l’accettazione del messaggio ha portato finalmente alcuni frutti.
Se vediamo nelle nostre città dei murales grandi come palazzi è grazie a questa lotta che ha visto coinvolti anche storici, critici e politici.
La possibilità di farsi vedere ed essere accettati da una comunità di spettatori più o meno volontari delle tue opere si unisce in questo momento anche alla responsabilità dei graffitari che verranno dopo di te e che si aspettano un certo livello di accettazione.
Andando ad urtare la sensibilità dello spettatore in maniera provocatoria e fine a se stessa secondo me facciamo una mossa controproducente per l’intera street art e per il suo futuro.
Dico questo perché spero che un buon messaggio di protesta non perda la sua efficacia una volta diventato di moda.
In un discorso più ampio con gli altri artisti, ad un certo punto ci siamo chiesti: ma cosa vogliamo che sia accettato?
Il bombing? Sicuramente no, perché il bombing è all’antitesi dell’accettazione, il suo piacere è anche l’essere imprevedibile, non invitato, abusivo.
Nelle mie opere cerco di mediare con questo mio senso di responsabilità, che mi fa inseguire il bello per me anche quando mi capita di ritrarre cose provocanti, come ad esempio i nudi femminili.
Nel vasto mondo dell’underground sono stati raggiunti diversi compromessi per arrivare in qualche misura a spazi (fisici e non) di accettazione e integrazione, che hanno portato volenti o nolenti ad una vasta normalizzazione.
Da lì c’è stata una contaminazione, un furto quasi, da parte delle dinamiche commerciali ed economiche.
Diciamo che se da un lato oggi i writers possono venire acclamati e pagati per le loro opere, dall’altro questo mina il rapporto fra street art, sempre meno street, e cultura underground.
Questa cosa l’ho vista molto con il rap.
Anche la canzoncina che non c’entra niente, ad un certo punto ci infila una piccola parte di canto ritmato stile rap.
Ma a livello grafico la pubblicità è stata la prima ad adottare tratti del mondo dei graffiti come ad esempio i font tipo il Balloon e altri elementi grafici tipici.
Questo succedeva già 30 anni fa! Oggi esiste anche un abbigliamento “street”.
Lo stile street è stato poi adottato anche da chi non condivideva nessuno dei tratti della cultura a tutto tondo propriamente detta street.
Oltre all’appropriazione per fini economici, c’è l’altro binario parallelo di normalizzazione costituito dal dialogo con le istituzioni, volto a farsi accettare per poter fare qualche lavoro o evento, per potersi esprimere più in grande.
Il lato positivo è che si sia creato un interesse più ampio, che ha dato vita ad un vero mercato che, per quanto piccolo in Italia, può dare agli artisti un modo per sopravvivere facendo quello che amano.
Quello che manca è la storicizzazione dei percorsi degli artisti e delle loro opere.
Questo progetto è ancora agli albori, anche se Inward ha iniziato a raccogliere nomi e foto di disegni a livello nazionale.
Come vedi le nuove generazioni?
Questa immagine ideale del writer di cui parlavamo prima, vestito da writer, che svicola al buio, coi lampioni lontani, le scarpe da skate, una bomboletta in mano, pronto a scappare quando arrivano le luci blu, esiste? Cioè, esiste ancora? Esiste in città, oggi?
La dinamica fra vecchie e nuove generazioni, quando ero giovane volevi diventare bravo come chi vedevi nelle fanze che giravano, e nei sogni volevi anche superarli, avevi quella carica del boccione che cerca il riscatto.
Non so bene come stia andando fra i giovanissimi, oggi, ma secondo me fanno fatichissima.
Avevo visto le generazioni un po’ più giovani di noi, quindi non più giovanissime oggi che cercavano la differenziazione affezionandosi a cose stile anni settanta, stile di lettering che come generazione avevamo abbandonato per cercare un’evoluzione rispetto ai predecessori che lo hanno inventato.
Ognuno col suo stile, nella crew c’era una ricerca più orientata al 3D delle lettere abbandonando anche gli stilemi classici dei graffiti.
Poi sono pareri miei, non sono un critico d’arte, racconto la mia esperienza e le cose così come le ho capite io negli anni.
La difficoltà, per chi inizia adesso, sta anche nel fatto che c’è uno scenario in cui non è tutto abusivo.
Esistono già dei writer accettati, acclamati, che hanno conquistato spazi, apprezzamento e credibilità.
Tu ti trovi ad avere a che fare con personaggi che sono dei mostri di bravura, mentre tu sei appena arrivato a lasciare il tuo segno in questo scenario.
In un ambito culturale underground il problema si pone fino ad un certo punto: il tuo piacere deriva dal fare il tuo segno, e che sia più visibile possibile.
Poi se vuoi entrare in un panorama commerciale penso che oggi serva anche altro.
Il lavoro del graffitaro non è una cosa che si improvvisa e non è una cosa che puoi fare se non hai veramente un gran periodo di passione per fare i graffiti.
All’inizio, quando ho cominciato, c’era tutto un contorno di underground.
Una volta c’era un forte collegamento fra graffiti, centro sociale e musica.
L’underground era molto attraente: il fatto di essere un graffitaro ti dava una tua identità che coniugava l’underground con un aspetto artistico, che si discostava molto dall’Accademia di Belle Arti.
Nel tempo per me si è perso qualcosa di questa cultura anche con l’arrivo del cellulare.
Ad esempio, noi per trovarci avevamo le banche, la famosa piazza delle banche (Piazza Da Porto a Padova, N.D.R.).
Senza cellulare non ci si poteva organizzare, cioè, non ci si poteva organizzare bene.
Giravano le fanze e la musica in cassetta, comunque conoscevi i posti, ma non c’era l’ora della punta, e trovavi chi trovavi, cose così.
Lì c’era questa forma di aggregazione che contribuiva a quel mondo di subcultura urbana a cui mi riferivo prima.
Ora mancano i posti, fra virgolette, dell’underground, e questo limita la dimensione.
Ad esempio i ballerini di una volta si trovavano la sotto alle banche perché c’era il marmo e si ballava bene, in un attimo si poteva creare movimento, aggregare gente.
Ora ci hanno cacciato da quel posto e l’allenamento dei b-boy si è trasferito in palestra.
È stato normalizzato un po’ tutto in generale.
Secondo me si è persa la spontaneità di quell’epoca.
A proposito di normalizzazione, eheheh. Tu sei un artista famoso per i ritratti, e chi vuole un ritratto chiama te.
Qual è la parte più ardua del lavoro su commissione?
Dietro ai disegni c’è molta ricerca, e i volti sono stati un po’ il centro di questo studio, tanto che il fine ultimo era quello di renderli un’opera completa individuando sistemi ed elementi che potessero fare da contorno e cornice.
Ad esempio nell’opera di Falcone e Borsellino vedi che sono circondati da quegli elementi grafici.
Ho cominciato a fare una sorta di cornici interne al disegno anziché esterne e a mettere elementi grafici rigidi e appuntiti che danzano sopra le curve morbide antropomorfe dei volti, ottenendo un forte contrasto emotivo.
Questo studio deriva anche dalla grafica e da tutte le mie esperienze precedenti.
A proposito delle cornici e della ricerca sullo spazio del disegno, sono arrivato a progettare direttamente sulla foto delle pareti grazie alla tavoletta grafica.
La progettazione stessa dell’opera mi prende più tempo rispetto alla realizzazione.
La cosa difficile è portare il valore di questa progettazione di fronte ai committenti.
Ti chiedono il progettino e poi pretendono di pagare solo il tempo impiegato per la realizzazione materiale dell’opera.
Street art e mass media: sai già dove voglio arrivare.
Al netto dell’età e della lunghezza della carriera, qui a Padova è da poco meno di 10 anni che si vedono graffiti enormi in luoghi dove un tempo non ce li saremmo mai aspettati.
Alcune delle nuove leve, se così si possono chiamare, hanno conquistato una visibilità che va molto vicina all’accettazione totale, tanto che per dirne una Alessio B. ha istoriato ettari di pareti pubbliche, venendo lodato a destra e a manca, stessa cosa con Kenny Random, che è apparso in pieno centro, portando il suo uomo col cilindro a due passi dal Pedrocchi.
Cosa ci puoi dire di quello che è successo e del perché è successo.
Adesso è da anni che stiamo facendo riconoscere questa forma d’arte, e ovviamente il coinvolgimento dei mass media è uno degli strumenti di pressione e divulgazione che abbiamo utilizzato, insieme al dialogo con l’amministrazione pubblica.
Come premessa, ho notato che non c’è una cultura prettamente storica nemmeno per gli artisti qui di Padova, e avere una storicità riconosciuta sarà un passaggio storico obbligatorio, secondo me.
Ad ogni modo, nel 2011 abbiamo fatto una mostra qui a Padova alla Galleria civica, in Piazza Cavour, da cui è nato un catalogo con un po’ di storia.
È stato un processo grosso tramite un bando europeo, è stata una delle grandi tappe per storicizzare e riconoscere l’importanza di Padova nel palinsesto nazionale e internazionale.
In Italia Padova è tra le città di riferimento come anche Bologna, Milano e altre grosse.
Ad esempio siamo riusciti a portare a Padova, il Meeting of Styles come unica tappa italiana, un evento di portata internazionale partito dalla Germania con l’intento di coinvolgere writer da tutto il mondo.
Nel nostro caso la prima edizione dell’evento padovano è stata memorabile.
Siamo riusciti a portare più di 90 writers.
Era una cosa apocalittica: li portavano in giro, davamo loro da mangiare e dormire, abbiamo trovato i posti per dipingere, montato le impalcature e con qualche sponsor colori e spray.
Noi “vecchi” chi più chi meno, abbiamo lavorato decenni per fare rete, per conquistare spazi e per diventare interlocutori interessanti anche per grandi enti e pubbliche amministrazioni.
Per anni ci siamo mossi prevalentemente in certi ambiti meno commerciali, lasciando libere delle nicchie di mercato o non ci interessavano, eravamo dei romantici.
Abbiamo parlato delle nuove generazioni, ma non ti abbiamo ancora visto come un writer pischello, quindi: che differenza vedi fra la tua generazione e quelle precedenti?
E cosa ti piaceva dei “tuoi tempi”?
Per darvi un attimo di profondità storica, tutto è nato in America, di natura abusiva i graffiti venivano usati anche dalle gang e la polizia li cercava in linea della metro con i fucili.
C’era l’abbandono dei quartieri poveri e il razzismo a ogni livello, c’era NewYork e la West Coast, i Creep e i Blood…
La nostra realtà è nata dopo e in mondo diverso.
In Europa c’è stato da subito un approccio più artistico con anche dinamiche di condivisione seppur sempre in una specie di sottobosco abusivo, magari meno cruento.
Per me la cosa bella dell’inizio era proprio il concetto di crew: i tosi, gli amici, che avevano in comune un hobby pervasivo, una passione catalizzante, uno stile di vita.
Negli anni 90 a scuola ho incontrato Zagor, che era un tizio che faceva già graffiti, mi sono interessato immediatamente e poi ho conosciuto Boogie e c’è stata subito intesa, e poi Made,Joy e Riot…
Così ho iniziato ad andare in giro di notte a guardarli disegnare ai giardini: facevo un po’ da palo un po’ da, come dire? Rompiballe!
Dopo ho cominciato a disegnare e il primo disegno l’ho fatto in via Ticino vicino al Pedro.
Da lì è partito l’amore. Sono entrato nella crew EAD e quindi la scena alle Banche, i ballerini Zhanna, Bounty e Stand, mc Max M’Bassador, dj Rebel, il Crazy, la Blue House e tanti altri compresi gli skater, tutti presi dalle arti dell’Hip Hop.
Joy ha sposato mia sorella e tutto era come in una grande famiglia, compresi amori e discussioni.
Quello che mi piaceva era qualcosa di alternativo, era qualcosa di particolare, qualcosa di più alto da fare insieme… è un po’ difficile da spiegare.
A livello artistico le paretone All of Fame mi affascinavamo molto perché vari artisti lavoravano alla stessa tela enorme tutti coordinati tra loro ma che ognuno faceva il suo pezzo con il suo Stile.
Guardando questo disegno, potrebbe sembrare che manchi un filo conduttore, ma c’è, e guardandolo vi so dire che qui c’è qualcosa di ognuno di noi, perché abbiamo collaborato tutti.
Ad esempio qua abbiamo detto il giallo dello sfondo lo userò anche per fare la mia scritta e io lo userò qui, io invece lo riprenderò nei toni dell’immagine che userò qui.
Poi ovviamente non c’è solo collaborazione, c’è anche un po’ di competizione nel fare il pezzo che spacca di più.
Cos'è questa storia della parete?
Trovare una parete non è semplice. All’inizio si cercavano magari la parete un po’ più imboscata o si chiedeva il permesso ad un privato.
In edifici o fabbriche abbandonate bastava scavalcare e fare il disegno, anche di giorno.
Le cose sono un po’ cambiate, per me, quella volta del sottopassaggio di Roncajette.
Avevamo creato una situazione con una ventina di amici e un po’ di musica per dipingere quel blocco di cemento grezzo già imbrattato.
Mi ricordo che ad un certo punto sono arrivate 3 volanti della polizia e ci hanno portato via, chi dipingeva.
Mi ricordo che dissi al poliziotto che avevamo ancora biancone e potevamo ripristinare la parete con una bella imbiancata.
La risposta fu: “Il muro non torna più come prima!” Stupito di tanta saggezza montai in macchina… almeno il pezzo è rimasto.
Da quella volta se voglio disegnare con calma e di giorno cerco una parete possibilmente con permesso.
Si tratta sempre e comunque di caccia alla parete.
La caccia alla parete è un’attività fondamentale, e c’è sempre stato chi era più o meno attivo in questa caccia: uno iniziava a guardarsi attorno, cominciava a chiedere in giro di chi fosse la parete che aveva adocchiato e se si poteva disegnare, ma era comunque un impegno costante.
Poi per avere il permesso di poter disegnare senza stress aggiunti posti pubblici in evidenza come ad esempio davanti alla stazione, ormai circa 25 anni fa abbiamo iniziato ad avere i primi contatti con l’amministrazione.
All’inizio c’è stato qualche contatto anche attraverso Progetto Giovani, ma poi sono invecchiato!
Beh, da quello che dicevi prima pare che il mondo dei graffiti sia un lavoro davvero usurante, fisicamente e moralmente.
Conta che nei tuoi anni migliori, mentre tutti gli altri vanno al mare o vanno a giocare a calcetto, tu ti alzi presto e arrivi alla parete con la crew, tutti insieme sotto il sole cocente a grattare, una mano o due di rullo e poi bombolette.
Ora mi sporco molto meno ma una volta mi inzozzavo di brutto.
Ma è bello, stai con gli amici, e fai una cosa che, seppur caduca come ogni opera d’arte che deve vivere sotto pioggia e sole, durerà tanto e verrà vista da molti.
Ma spiegaci meglio:quali sono gli altri motivi per cui ci sono così poche donne tra i graffitari?
Secondo me ci sono poche donne, anche se ci sono crew di solo ragazze, anche perchè, come dicevo un attimo fa, è molto faticoso specialmente all’inizio, faticoso fisicamente.
All’inizio soprattutto non sai neanche bene come usare le forze, soprattutto con l’impalcatura, e ancora di più con la scala. Ti ritrovi ad avere una parete grande, e vai su e giu per la scala, disegni da vicino, scendi e controlli da lontano, di mezzo metro in mezzo metro per ore.
Poi, e ora dirò quello che vogliono sentirsi dire le femministe, è un ambiente machista.
Ahahaha, no, scherzo, ci sono anche situazioni contingenti di rischio effettivo, come quando entri in una casa abbandonata, chiunque incontri li dentro non è sempre un bell’incontro.
Anche volendo andarci in due amiche ci si caga sotto, e ti giuro che ti caghi sotto anche se sei in due amici eh?
A proposito, il fatto di avere quelle botte di adrenalina e di tornare a casa vivo, non ti dà un tipo di emozione che dopo vuoi ripetere?
Per me no, quel tipo di adrenalina è sempre stato un fastidio, mi fa lavorare meno bene.
Qualcosa di simile è stato incanalato da me e da altri nello snowboard.
Abbiamo sviluppato la passione per lo snowboard quando ancora era agli inizi, e ci andavo soprattutto con Boogie ogni volta che potevamo.
Nel tempo ho anche messo a fuoco una analogia fra snowboard e graffiti, in contrasto con l’analogia fra sci e arte classica.
L’analogia sta nella posizione: con lo snowboard e i graffiti sei asimmetrico e aereo, sci e pittura classica ti vedono più immobile, parallelo, statico.
È un modo trasversale di vedere le cose, al contrario di chi è conservatore, rigido, tradizionalista.
Questa cosa della cultura underground e della corporeità trasversale, del punto di vista trasversale, si ritrova nei graffiti come nello skate, nello snowboard, nel surf e osservi la società da un posto alternativo.
Non è un rapporto di causa effetto, per cui se sei così diventi così, è un legame più elastico che però è facile da riconoscere.
Hai tirato fuori una cosa grossa e forse che non ci aspettavamo da un writer: la caducità dell’arte. Cosa intendi?
Beh, è facile affezionarsi a tutte le proprie opere e poi rimanerci male per la caducità di queste opere.
Gratti il muro, usi il fissativo ma la colpa a volte è del materiale in sé, a volte è del padrone della parete che decide di ripulirla, altre volte sono le amministrazioni che cancellano i disegni, o vengono abbattuti edifici interi, oppure tu stesso decidi di coprire il pezzo con un altro perchè era giunto il momento.
L’opera nasce vive e muore avendo vita propria.
Quello che succede a Banksy è emblematico: anche a lui hanno buttato giù qualche disegno.
Quando si sono accorti del valore delle sue opere hanno cominciato a prendersi direttamente i muri o a ricoprire con plexiglass cercando di contrastare questa innata caducità della street art.
Come graffitaro comunque hai da subito la consapevolezza che il tuo disegno presto o tardi verrà coperto, ma più rimane più gente lo vede.
Ci sono posti in cui un graffito non dura un giorno…
Bisogna dire però che nelle opere più importanti e destinate a durare lo sviluppo tecnologico delle vernici permette una conservazione perfetta per molti anni.
Il caso di Corso Milano è esplicativo. Senza entrare nella polemica, si è trattato del riutilizzo di una parete che aveva un’opera ormai deteriorata.
La riproduzione della Guernica di Picasso, un elemento che ha contraddistinto Corso Milano per più di 25 anni.
Aveva raggiunto un livello di degrado totale e ha subito la fine dei graffiti: coperto se ne fa un altro sopra.
Oltre a Padova, dove sei stato? Cosa ti è piaciuto? Come si muovono i writers?
Come fanno a fare gruppo?
Si gira e si creano contatti, organizzi eventi per conoscere e dipingere con altre crew, per invitare writer e poi magari essere invitato a sua volta.
Ma non solo, gli esempi sono tantissimi e dipendono dalle situazioni e dagli approcci delle crew.
La cosa degli eventi serviva quindi a fare rete, ma anche a supportare con qualche colore che ti avanzava.
Questa cosa del fare rete diventa virtuosa sotto molti aspetti: alla fine, anche nelle città piccole hai comunque un paio di writers di riferimento.
Fra gli eventi che ricordo con piacere c’è Overline di Salerno.
Per varie edizioni i ragazzi di Baronissi ci hanno accolto in modo veramente ospitale.
Abbiamo disegnato insieme ma anche mitiche cene di pesce, musica e festa.
Ricordo nel 2013 hanno suonato i Colle del Fomento, gruppo storico della scena underground.
In questi eventi si crea un legame molto forte.
Puoi anche litigare o divertirti ma il focus è sempre sul risultato finale della parete.
All’estero invece, per citare un evento molto significativo, mi viene in mente la Spagna, Almeria.
È stato un viaggio cruciale per lo sviluppo della mia tecnica pittorica.
Lì ho conosciuto Belin, che per fortuna non aveva questo nome a Genova!
Il mio stile e la mia tecnica erano ancora grezzi e approssimativi, e Belìn per me il più bravo al mondo con gli spray.
Tecnicamente avanti ma anche con una fortissima poetica.
Mi ricordo che siamo andati in Almeria con Yama passando per Barcellona: già solo il viaggio è stato bello.
Siamo andati da Stook che ci ha ospitati a casa sua, siamo andati ad un mare tropicale nella terra degli Spaghetti Western, feste e locali, e abbiamo fatto dei disegni su una scuola elementare.
Poi insieme alla sua crew gli OGT, abbiamo lavorato su un palazzo che era diviso in tre blocchi, tre elementi, e ci abbiamo disegnato tre donne che simboleggiavano bellezza, purezza e passione.
Io ho rappresentato la passione.
È stato un lavorone tosto, sotto il sole, su un’impalcatura arrugginita tutta traballante.
Lì mi sono arrampicato con Belin e gli ho chiesto: “Posso stare qui a guardare?”.
Beh, non ricordo altre esperienze che mi siano servite più di quella.
La sua tecnica per le sfumature per me è stata rivoluzionaria.
Un altro grande vantaggio era che anche lui, come me, era un appassionato di volti.
Ma un piccolo writer cosa vuole fare da grande?
Combattere fino alla morte all’ombra del cavalcavia dove fare il suo disegno col cuore in gola, attento a non farsi beccare, o vuole essere un artista riconosciuto che vive con le sue opere?
Perché se una persona qualsiasi, che non è dentro al mondo della street art, pensa a un writers, pensa a Banksy, che ormai dev’essere foderato di soldi.
I writer che vivono d’arte sono fortunati, bravi, scaltri, o semplicemente di street art non si vive fino a che non sei un colosso?
Il sogno del giovane writer è una cosa molto personale.
Se vuoi rimanere duro e puro, è come essere in un gruppo punk.
Fai il tuo disco: lo vuoi vendere?
A chi lo vendi per restare punk? Beh forse non lo devi nemmeno vendere!
Quello che posso dire sull’evoluzione di questa arte è il fatto che oltre all’opera singola ha acquistato un valore anche la stampa numerata in edizione limitata, stampa digitale che all’inizio avevo snobbato, potevo a malapena tollerare qualcosa di più artigianale come la litografia o la xilografia.
Invece la stampa digitale avendo un costo di realizzazione contenuto ed essendo un multiplo può essere venduta anche a cifre basse dando così la possibilità a più persone di avere un’opera firmata dell’artista preferito. Sicuramente un modo più equo di far girare arte.
Guardiamo Banksy. Adesso vende le stampe ad un sacco di soldi, ma quando ha iniziato con le prime tirature vendute a soli $50, gliene rimanevano un sacco sul groppone.
Poi è riuscito a fare il salto sfruttando il sistema, passando alla fama.
Ha innalzato l’intero sistema della street art dando più credibilità agli occhi del mainstream.
La sua quotazione è arrivata alle stelle, e il bello è che è riuscito ad avere questa quotazione criticando le dinamiche e l’establishment stesso del mondo dell’arte.
Per tornare a parlare di me, io prendo le distanze da un approccio come quello di Banksy: è quello in cui la prevalenza viene data al messaggio, mettendo in secondo piano la tecnica pittorica.
Le mie opere sono il risultato di un balletto tra la pesantezza del messaggio e la leggerezza delle immagini, fra lo sforzo tecnico e la bellezza del risultato.
Cerco di non essere mai banale.
Secondo me la tecnica che viene sacrificata e banalizzata è una risposta ad una richiesta di mercato.
L’avvento di un mercato come partner ideale dell’artista ha portato a questa inevitabile dinamica puerile.
Si tratta da un certo punto di vista della dimostrazione di come l’arte sia veramente lo specchio della società in cui nasce.
Quando parlavi del bello della street art hai fatto riferimento agli strumenti manuali che vengono usati, alla pratica che bisogna avere, ai trattamenti delle pareti, al lavoro all'aperto, ad un approccio sostanzialmente artigiano alla street art.
Cosa ne pensi del fatto che ora si usi molto il computer?
Che poi magari fra vent'anni anche questo step verrà superato i giovani del futuro diranno: “Ah si pensa che una volta usavano il computer!”.
Sì, io ho passato questi step.
Per me all’inizio i graffiti veri erano solo quelli con la bomboletta.
Adesso chi vuole fare street art è libero di fare quello che vuole e la può fare con i suoi mezzi: con gli spray, gli stencil, pennelli, rulli, con quello che vuole.
Una volta io ero un purista dello spray, e non accettavo neanche gli stencill-cap che usavano un escamotage per fare il segno più fino.
Poi ho abbandonato qualche dogma quando è arrivato l’amore per il risultato finale indipendentemente dal come è fatto.
All’inizio progettavo in modo approssimativo, poi grazie alle conoscenze dei programmi di grafica e fotoritocco acquisite con il lavoro da grafico ho evoluto una tecnica di progettazione che univa disegno, foto e design.
Banalmente, usando Photoshop, ho avuto l’illuminazione: perché non proviamo a montare questo disegno sulla parete?
E bam! Ho iniziato a progettare direttamente sulla foto della parete, così vedevo chiaramente gli elementi di ingombro come porte finestre o grondaie includendoli nell’opera. In questo modo riesco ad assecondare la mia pignoleria e ricerca dell’inquadramento perfetto.
In effetti all’inizio non avevo la macchina fotografica o la tecnologia anche solo per immortalare le opere o ritrarre le pareti prima e dopo il lavoro.
Ad esempio, quando ho in mano un progetto fatto al computer, mi basta usare il metro o la bolla per riportare punti di riferimento sulla parete e riuscire a realizzare esattamente quello che avevo in mente con proporzioni e inquadramenti precisi, riducendo anche i tempi di traccia e realizzazione.
Anche perché un elemento che contraddistingue la street art da arti più classiche è la velocità di esecuzione.
Nascendo in un ambito completamente abusivo, i pezzi vanno realizzati in poco tempo.
I graffitari più bravi li riconoscevi perché riuscivano a fare opere meravigliose in pochissimo tempo.
E qui ci vedo una analogia con la società moderna: il tempo, la fretta, diventa un elemento focale.
Ad esempio mi è capitato di dover eseguire un lavoro su una facciata di 9 metri ed il committente mi diceva: “Fai veloce!” e io pensavo: “Ma come veloce, lo vuoi bello o lo vuoi finito presto?”.
Una volta avrebbero detto “fammi un bel lavoro” e non “fai un lavoro veloce”.
La fretta mi è sempre stata antipatica, lavoro meno bene se devo correre, per questo anche la mia fase abusiva è stata molto breve ed è stata presto sostituita dalla fase con un’estetica più elaborata e progettuale.
Un’altra cosa che ha aiutato molto i writers sulle grandi pareti è la piattaforma aerea che ha sostituito scomode impalcature, devi prenderci la mano che le prime volte fa paura.
Mi ricordo ancora la prima volta che sono salito a 20 metri c’ho messo un po’ a sciogliermi.
Dopo un po’ il corpo si abitua all’altezza e ai movimenti della cesta, o almeno a me succede così.
Un altro aiuto può venire dal proiettore, che io personalmente non amo perché deforma un po’ l’immagine, e anche usando le correzioni ci sono dei punti che perdono le proporzioni.
Allora AXE, adesso noi ce ne andiamo.
Grazie della compagnia, delle chiacchiere, delle storie, degli spritz e complimenti per le tue opere e per il tuo gatto.
Un’ultima cosa però te la chiediamo.
Nel tuo sito abbiamo visto quel progetto sul cercare di “disegnare i suoni”.
Di cosa si tratta? E che altro hai in cantiere?
Ah sì, è un progetto in cui cerco di realizzare delle espressioni facciali che facciano percepire un suono a livello visivo.
Il suono della lettera che il volto ritratto pronuncia.
E’ stata un’illuminazione arrivata parlando in macchina con Dado di Bologna di ritorno da una trasferta.
Nel mondo dei graffiti le lettere del nome sono sempre state al primo posto e quindi ho cercato di unire la mia passione per il figurativo alle lettere del mio nome: disegno tre volti
che pronunciano A – X – E.
Questo progetto che chiamo Talking Letters o Lettere Parlanti si è spostato anche sulle sculture dove incastro un volto che nasce dalla lettera tridimensionale che pronuncia.
In realtà questo progetto è stato momentaneamente accantonato: ci vorrebbero infinite vite per sviluppare tutte le idee!
Adesso mi sto dedicando anche ad una revisione dello stile pittorico, che è sempre stato molto pulitino.
Sto valutando anche inquadrature particolari del disegno sulla parete: rispetto ad una tela dove lo spazio è delimitato, in un grande muro il limite è il cielo.
Ciao AXE, grazie!
Alla prossima!