SIAMO STATI AL TALK “IL CORPO DELLA VIDEOARTE” DI ARCELLA BELLA

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In questo articolo vi racconto di quella volta in cui mi sono travestito da reporter, ho partecipato ad un talk di Arcella Bella sull’arte contemporanea, ho visto una performance dal vivo, mi sono sentito appagato e ho riflettuto sull’arte, sull’esistenza e sulla comunicazione.

Il contesto

Stiamo parlando di un evento organizzato da Arcella Bella (penso che a Padova sappiamo tutti cos’è, nel caso non lo sapeste guardate qui) nell’ambito di SO CONTEMPORARY!, un ciclo di talk sull’arte contemporanea.

Il titolo del talk era “Il corpo della Videoarte”. La curatrice Caterina Benvegnù ospitava sul palco una storica dell’arte, Carolina Gestri e tre artisti, ovvero il duo MiamiSafari (Alessia Prati e Matias Julian Nativo) e il videoartista Daniele Costa.

Gli ospiti si chiedevano se fosse possibile considerare il video di una performance artistica come esso stesso una performance, e se quel video si possa considerare un corpo, come sono corpi quelli dei performer, quello di chi registra il video e quelli di tutti gli spettatori.

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Da sinistra: Alessia Prati, Matias Julian Nativo, Daniele Costa,Caterina Benvegnù e Carolina Gestri

Durante il dibattito, uno schermo rivolto verso il pubblico permetteva di apprezzare alcuni frammenti tratti da famose performance, come IMPONDERABILIA di Marina Abramović e Ulay, in modo da contestualizzare le riflessioni e allo stesso tempo dare le coordinate storiche e politiche dell’intera discussione.

Un frame di Imponderabilia con perfomer e pubblico

Concluso il talk, ho avuto l’opportunità di assistere assieme ad altre persone alla performance di MiamiSafari “megamore, parte II” allestita di fianco al palco tra gli alberi del parco, dove alcuni performer danzavano tra gli alberi e gli schermi dell’installazione, che a loro volta trasmettevano frammenti di altre performance.

I MiamiSafari

Quasi una cartella da 300 parole con foto dove sono riuscito a condensare tutto, direte voi (dovrei riuscire a raggiungerle tra poco, ci siamo quasi, ce l’ho fatta!).

Ma la realtà è più complessa e sfaccettata, perciò sedetevi e provate a seguire il mio tentativo di andare in fondo alla questione.

Il punto di vista

Prima di continuare credo sia doveroso farvi capire il punto di vista di chi sta provando a descrivervi l’esperienza.

Io sono nato a Padova all’inizio degli anni ottanta, mi piace la musica, leggo quanto basta, lavoro in un’agenzia di comunicazione.

Credo di essere abbastanza in target per l’evento, anche se, a parte la visione di alcuni documentari su Rai5 e la conoscenza di alcune persone appassionate d’arte, come la mia art director, non conosco molto l’arte contemporanea.

Tra l’altro non credo di essere neanche particolarmente bravo a scrivere, e proprio per questo credo che la mia art director mi abbia obbligato consigliato di scrivere questo articolo.

“Solo tu che vivrai l’esperienza potrai riportarla fedelmente” mi dice, e io perciò cercherò di annotare e fotografare più cose possibili.

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Il vostro reporter prima dell’illuminazione, ovviamente la foto è di Arcella Bella

Mentre prendo appunti, Alessia Prati, del duo MiamiSafari dice “…lavoriamo molto sullo storytelling sonoro, sulla variazione di temi e volume per sottolineare passaggi o creare stati di attesa o movimento per coinvolgere il pubblico…”.

Eccola! L’illuminazione!
Quindi, in qualche modo, stiamo parlando di regia, e se parliamo di regia parliamo di film, e se parliamo di film…

No, non sono un esperto cinefilo, direi più un “appassionato superficiale con gusti particolari”, ma almeno questo mi permette di stabilire un punto di contatto da cui partire per capire quello a cui sto partecipando.

E se riesco a capire, vuol dire che sono in grado di fare degli esempi.

L’esempio

Parto con un’affermazione: i film sono un potente medium che, attraverso l’unione di una ripresa video coordinata da un regista con un sonoro delle battute degli attori assieme a delle musiche inserite nello storytelling, permette non solo di “vedere una storia” e immedesimarsi nei personaggi ma anche (se il regista è bravo) di diventare parte dell’immaginario collettivo.

Non mi credete?
Provate a digitare sulla barra di Google “Ezechiele 25:17”.
Fatto? Che cosa esce?

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Non dite “cosa?”

La prima voce di ricerca è una pagina di Wikipedia che ci dice che questa famosa battuta del film “Pulp Fiction” non è un vero versetto biblico ma la citazione di una battuta di un altro film, peraltro vagamente ispirata al vero versetto.

La finzione è diventata parte del patrimonio collettivo in modo molto più potente rispetto al verso contenuto in un libro di una delle principali religioni monoteiste che presumibilmente contiene alcuni fatti veri?

Ma non finisce qui: Pulp Fiction, un film che tutti conoscono e che unisce sia i cinefili che gli spettatori meno smaliziati, sta citando a sua volta altri film.

Guardate questa scena di Pulp Fiction e poi guardate quest’altra scena di ballo.

Tarantino ha preso in parte spunto dal film Bande à part di Godard per creare un’opera che, a distanza di quasi trent’anni, è diventata parte integrante della cultura popolare.

Quindi ci troviamo di fronte ad un’opera con più piani di lettura (piace a tutti), con riferimenti colti (Godard), e che diventa parte integrante del sentire comune.

Senza dimenticare la colonna sonora selezionatissima che scandisce costantemente le varie fasi del film, creando la giusta atmosfera.

E tutto questo funziona perché il suo film non racconta solo una storia, ma mette in atto tutta una serie di strategie per coinvolgere il pubblico, inserendo piccoli gesti quotidiani e mostrando personaggi vili e vulnerabili, perciò molto più simili nelle reazioni ai potenziali spettatori.

Possiamo sentirci anche offesi, al limite, ma quando facciamo un passo falso nella vita, di fronte al capo magari, non possiamo non sentirci terrorizzati e senza scampo.

Esattamente come si sente Vincent Vega quando per sbaglio manda in overdose la ragazza di Marsellus Wallace.

La serata

Il concetto fondamentale attorno cui si è sviluppato il talk è che quando parliamo di rapporto tra video e corpo dobbiamo considerare che ci sono più corpi:

  • il corpo di chi riprende la performance
  • il corpo dei performer
  • i corpi del pubblico

Il progetto artistico, in questo caso, diventa l’elemento catalizzatore, e l’artista ha la responsabilità di trovare i mezzi per coinvolgere gli spettatori e renderli parte integrante dell’esperienza.

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Le prime performance di questo tipo risalgono a fine degli anni ‘60 ma è negli anni ‘70 che assumono i connotati che ancora oggi le caratterizzano, compresa la tensione verso la ricerca di nuovi linguaggi e l’attitudine alla provocazione finalizzata a far riflettere il pubblico sulle contraddizioni della società.

Prendiamo ad esempio, Imponderabilia di Marina Abramovic. Quando fu presentato alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nel 1977 fu interrotto dalle forze dell’ordine, in quanto contro la morale dell’epoca, e suscitò reazioni di ogni tipo nel pubblico presente, affascinando, incuriosendo e infastidendo allo stesso tempo.

Nel caso di Imponderabilia abbiamo i corpi fisici dei performer, i corpi degli spettatori che interagiscono, il corpo di chi sta filmando il video.

Da questa analisi scaturiscono due domande: il video che documenta una performance è esso stesso un’opera d’arte al pari della performance?
E il video, registrato e condiviso, non è esso stesso “un corpo”, in quanto veicolo di un messaggio che provoca una reazione in chi lo guarda?

Daniele Costa risponde: “Sì! Inoltre, durante la performance ci sono gli schermi che trasmettono video, e i video trasmessi diventano dei “corpi” come gli spettatori e i performer. Perciò, alla fine, nella performance ci saranno i corpi dei performer, quelli degli spettatori, il corpi rappresentati dai video trasmessi (a volte frammenti di altre performance nda) e i corpi rappresentati dagli schermi.”

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E in questo, personalmente, trovo una forte analogia con le opere della Nouvelle Vague (più sopra citavo appunto l’esempio di Bandè à part di Godard) nella quale si cerca di uscire dai tradizionali schemi del cinema dell’epoca per comunicare le nuove esigenze dei giovani dell’epoca e cercare nuovi linguaggi condivisi, anche a livello politico.

Infatti durante il talk alla domanda: “Quanta consapevolezza avete dei mezzi che adottate per coinvolgere gli spettatori?” Matias dei MiamiSafari risponde: “Per noi la consapevolezza dei mezzi adottati per coinvolgere il pubblico è un fattore importantissimo, anche per il concetto di autorialità e autenticità.
Attraverso l’opera viene offerta l’opportunità di coinvolgere pubblico e performer in un’unica azione, e questo diventa politica. Noi invitiamo costantemente il pubblico ad interagire, e consideriamo questa una politica dell’arte”.

È un concetto molto interessante perché, come nell’esempio della Nouvelle Vague, la necessità di commistione col pubblico da parte dell’artista diventa sia un momento di riflessione collettiva sia un luogo dove elaborare le istanze di un presente inaccettabile in cui si vuole agire proponendo dei cambiamenti profondi, coinvolgendo il pubblico attraverso la rappresentazione fedele della realtà in cui vivono.

I punti salienti

Proverò, prima di arrivare alle conclusioni, a riportare la parte finale del talk per far capire quanto i confini dell’arte contemporanea possono essere sfumati quando viene messa a confronto con l’attualità e con il contesto sociale in cui opera.
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Caterina Benvegnù: “È interessante questo sfondare i confini (tra pubblico e performance), questa commistione di corpi, soprattutto in questo periodo post covid dopo mesi di isolamento forzato.
Esplorare la dimensione di annichilimento post covid che riflessioni vi porta a fare?”

Matias di MiamiSafari: “La multimedialità è diventata una necessità in questo periodo, e questo ci ha dato un ulteriore slancio nella nostra ricerca”.

Alessia di MiamiSafari: “Alcuni spettatori reagiscono stringendosi ancora di più, per questo lavoro su musiche che coinvolgono. Questa è una mia impressione. Percepisco una “vibrazione del pubblico”, una maggiore voglia di vicinanza. Ma ripeto, è una mia impressione”.

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Daniele Costa: “Secondo me viviamo in un periodo in cui il video ha una grande presa di coscienza di sé, sia per la grande diffusione sia perché è uno strumento che diventa “corpo”, nel senso che diventa parte dell’opera…”.

Carolina Gestri: “In questo senso è interessante notare come nel tempo ci siano stati vari esempi di commistione tra la videoarte e l’attivismo, come ad esempio i video di alcuni collettivi Newyorkesi degli anni ottanta, creati proprio nel periodo di presa di coscienza della cura dell’AIDS. In questo caso gli artisti si sono contaminati con il tessuto sociale in cui erano inseriti e con le sue istanze.

Caterina Benvegnù: “Quanto è complesso farsi contaminare?”

Alessia di MiamiSafari: “I nostri lavori sono un esempio di contaminazione. Mi spiego: noi siamo un duo, ma i nostri lavori non sono mai l’espressione di un duo in quanto coinvolgiamo sempre altri artisti. Questo ci permette di confrontarci sempre, anche con visioni molto diverse, instaurando un dialogo dove a volte si creano degli attriti. Ma questi attriti poi diventano parte integrante dell’opera…”

Carolina Gestri: “Cercate, durante l’opera, di mimetizzarvi anche nell’abbigliamento? Vestite i performer con dei costumi che richiamino l’estetica corrente oppure i costumi sono funzionali solo al contesto dell’opera?”

Matias di MiamiSafari: “Pensiamo che gli abiti siano solo un costrutto culturale da mettere sopra i corpi.”

Carolina Gestri: “Certamente, e questo è ancora più evidente oggi in quanto, a differenza delle generazioni precedenti che usavano gli abiti per definirsi e comunicare la propria appartenenza, la generazione Z è più camaleontica, non è legata ad un unico stile, tant’è che i ragazzi indossano diversi stili anche durante la stessa settimana…”

Le conclusioni

Si, va bene, ho provato a buttarla in caciara facendo il bullo e citando Godard, senza contare la banalità dell’esempio di Pulp Fiction che neanche uno al primo anno del Dams guarda…

Tutto vero, ma io ho giocato a carte scoperte fin dall’inizio, lo farò fino alla fine, e per questo motivo vi dico che ho due domande e una conclusione.

1. Quello che filmiamo, che sia una performace artistica o un video su Tik Tok, diventa un corpo, vero e reale quanto lo sono io, perché come una persona può rappresentarmi, rendermi felice, ferirmi, farmi riflettere, distruggere la mia esistenza?

2. Se i video, da quelli che facciamo col cellulare fino ad arrivare ai film d’autore, passando attraverso la videoarte e quelli prodotti per fini commerciali, hanno potere e danno potere (pensate al neuromarketing applicato alla creazione di contenuti pubblicitari) non dovremmo ridefinire il rapporto che abbiamo con essi anche responsabilizzando di più l’intera società?

E come promesso la conclusione: vi capisco se siete arrivati fino a qui e non avete ancora capito cosa c’entra tutto questo con una agenzia di comunicazione.

Potrei dire che, per aiutare gli altri a comunicare, una agenzia di comunicazione deve ascoltare, fare ricerca, aggiornarsi costantemente e che, in questi tempi travagliati, per ripartire abbiamo bisogno di essere più inclusivi, come fanno ad Arcella Bella e compagnia bella.

Ma non sarei completamente onesto come vi ho promesso che sarei stato.

La verità è che per un attimo, non mi ricordo in quale momento della serata, mi sono sentito veramente parte di quello che stavo vivendo.
Il talk e la performance stavano raccontando qualcosa di me e sentivo che avrei avuto il bisogno di scrivere tutti questi giri di parole per riuscire a coinvolgervi.

E se nonostante la paura (tuttora mi sento inadatto) sono riuscito a coinvolgere anche solo uno di voi, o a far provare parte di quello che ho vissuto, vuol dire che grazie ad un talk sull’arte contemporanea ad Arcella Bella sono riuscito a imparare qualcosa di nuovo, buono per il mio mestiere.

Autore
Alessandro Gastaldello

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